Prima donna italiana ad entrare nell’American Society of Cinematographers, Valentina Caniglia ASC, CCS racconta il suo percorso unico come direttrice della fotografia: da Napoli ai set di tutto il mondo. Tra sfide, incontri decisivi e una passione visiva nutrita dall’arte, ha saputo costruire una carriera che unisce tecnica, cuore e inclusione.
Come nasce la tua passione per il cinema e come si sviluppa il tuo percorso di studi?
La passione per il cinema me l’hanno trasmessa i miei genitori: ad entrambi piaceva molto il cinema d'autore. In casa si guardavano Pasolini ed Elio Petri, che è uno dei miei registi preferiti. I miei mi fecero vedere “Il Conformista”, fotografato da Vittorio Storaro: rimasi folgorata da luci, inquadrature e movimenti di macchina. Capii che volevo fare la direttrice della fotografia, nonostante fosse un mestiere poco accessibile alle donne.
Sono nata e cresciuta a Napoli. A quasi 18 anni mi sono trasferita a Londra e ho studiato per due anni al Westminster College, con un indirizzo in cinematografia e produzione. In parallelo ho conseguito un’altra laurea in psicologia. Mentre stavo per completare questo percorso, un’insegnante, senza dirmi nulla, iniziò a preparare i documenti per farmi ottenere una borsa di studio in America, intuendo che potessi avere spazio nelle università statunitensi. Avevo preso informazioni per entrare alla NYU o alla USC, ma erano troppo costose. Londra, all’epoca, essendo in Europa, era più accessibile.
Valentina Caniglia ASC, CCS sul set di "Fly Little Bird" con ALEXA 35.
Raccontaci la tua esperienza americana: come ci sei arrivata, quali difficoltà hai incontrato?
Come dicevo, a sorpresa ho vinto una borsa di studio e ho scelto New York, molto influenzata dal cinema di Spike Lee e Scorsese. Ho seguito un corso con Spike Lee e, quando mi domandò che cosa volessi fare, gli risposi che volevo fare la direttrice della fotografia a tutti i costi. Vent’anni dopo mi sono ritrovata a lavorare con lui su una serie: non si ricordava di me, e paradossalmente è stato bello, perché mi ha scelta per il lavoro, non per quel ricordo.
C’è stato un progetto che ha segnato una svolta nella tua carriera?
Un film palestinese, “Melograni e Mirra” di Najwa Najjar, mi ha cambiato la vita e la carriera. Conobbi una regista marocchina a un party a New York e mi presentò Najwa; lessi la sceneggiatura e tre giorni dopo ero oltre il muro, in Palestina, durante la terza Intifada. Il film era cofinanziato da Germania, Italia e Francia: la troupe tedesca non riuscì a entrare, io sì, arrivando da sola. È stato un incontro fortissimo di culture e umanità.
Tra i registi americani invece mi ha segnato molto lavorare con Richard Ledes: l’ultimo film insieme, in bianco e nero, sulla vita di Lacan, aveva inquadrature molto pensate e composte. Un cinema di libertà che convive con la pianificazione.
Un'immaigine dal film Pomegranates and Myrrh (Melograni e Mirra) girato da Valentina Caniglia in Super 16mm con ARRIFLEX 3R.
Pensi di avere una tua “firma” visiva o ti adatti alla storia?
Per me non esiste una fotografia “bella” o “brutta”, ma quella giusta per la storia che si vuole raccontare. Quello che mi interessa è creare immagini che vivano dentro la narrazione, non al di sopra di essa. Spesso registi e colleghi mi hanno detto di aver riconosciuto un’inquadratura o una luce come “mia”, anche senza sapere che fossi io dietro la macchina: credo che in quel riconoscimento ci sia il mio cuore, più che una firma. Ogni progetto è diverso, ma un tocco personale ritorna sempre, in modo naturale, come un’impronta visiva che nasce dall’emozione che metto nel lavoro.
Come costruisci il look dei tuoi film e quali sono le tue ispirazioni visive?
Quando costruisco il look di un film parto sempre dalla sceneggiatura: ogni scena per me è come un dipinto, raramente mi ispiro ad altri film perché la pittura mi parla più in profondità. Ascolto molto il regista, cerco di entrare nel suo mondo e insieme costruiamo un viaggio visivo. Dal punto di vista tecnico, la mia prima scelta sono sempre le ottiche, perché definiscono il punto di vista, la profondità di campo e le sfocature; poi abbino la camera giusta alle lenti, creando una coppia che risponda alle esigenze della storia. Mi piace cambiare generi e formati, adattando sempre lo stile al racconto.
Tra le mie ispirazioni visive ci sono Artemisia Gentileschi e Caravaggio, per il loro uso del chiaroscuro che considero una vera lingua espressiva. A volte mi affascina Picasso, soprattutto nel periodo blu. Tra i contemporanei, mi ispirano Gerhard Richter per la fusione tra classico e moderno, Basquiat per la forza dei colori e Kara Walker per il lavoro sui profili e sul fondo. Scelgo sempre in base alla storia e al tipo di contrasto emotivo che voglio far emergere. Peter Greene in "3 Days Rising" in uscita nel 2026, girato da Valentina Caniglia ASC, CCS.
Che rapporto hai con la troupe, hai una squadra fissa o ti piace cambiare?
Lavorando in tutto il mondo, dalla Giordania a Londra, dall’India all’Italia e al Sud degli Stati Uniti, mi capita spesso di cambiare squadra e collaborare con maestranze locali. Credo che adattarsi a nuovi contesti sia fondamentale, sia per ragioni pratiche e culturali sia per il budget, ma anche perché ogni set è un’occasione di crescita, sia per me che per chi mi affianca. Cambiare squadra comporta dei rischi, ma è anche un’opportunità preziosa per far fare esperienza a nuove persone e creare canali d’ingresso per le nuove leve. L’esperienza, infatti, va costruita: qualcuno deve concedere la prima volta. Per questo chiedo spesso di poter formare e promuovere giovani in reparto camera, senza assumere per quote o etichette, ma puntando a un reale equilibrio e alla valorizzazione delle capacità. Se non si creano opportunità concrete, il ricambio generazionale non avverrà mai e il nostro mestiere rischia di non evolversi.
Sei la prima donna italiana ad entrare nell’ASC: che effetto ti ha fatto?
Un’emozione enorme. Quando mi hanno offerto l’ingresso, ho accettato con gioia: è stato un sogno divenuto realtà, ho sempre sognato quelle tre lettere. Non pensavo di essere così sostenuta: ho fatto tutto da sola per anni, senza agganci, e forse ho sbagliato a non chiedere aiuto. Oggi dico ai giovani: chiedete. Non si dà fastidio a nessuno. Valentina Caniglia ASC, CCS sul set di "3 Days Rising".
In America c’è più spazio per l’inclusione?
In generale sì, ma non abbastanza: anche negli Stati Uniti le direttrici della fotografia che lavorano stabilmente sono poche. La soluzione è creare reti: se un DP è molto impegnato, può affidare una seconda unità a una giovane DP, lavorarci insieme e poi lanciarla. La generosità torna indietro, anche solo come sostegno umano nei momenti di “bassa” che tutti abbiamo. È vero che ci sono meno possibilità per le donne, ma non dobbiamo vittimizzarci: non dobbiamo essere assunte perché siamo donne, ma per il nostro talento, la nostra bravura, capacità ed esperienza.
Un consiglio creativo, uno tecnico e uno di carriera…
Creativo: segui un mentore se puoi, ma soprattutto ascolta l’istinto e il cuore.
Tecnico: impara la tecnica, ma poi dimenticala sul set. Le regole esistono anche per essere infrante quando serve alla storia.
Carriera: non fermarti mai, chiedi e dai opportunità a chi ne ha meno. L’esperienza va creata, non pretesa.
Una immagine dal film "Quail Hollow" diretto da Javier de Prado con la fotografia di Valentina Caniglia ASC, CCS.
Foto di apertura di Yazan Shabbak.